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Sempre connessa a storiche vicissitudini ma anche, al caso, indipendentemente da alcuna o alcune precise motivazioni storiche, per lo meno consapevolmente acquisite in uno dei suoi processi di produzione, sempre collettiva, l'Opera lirica, fondamentalmente italiana, molto deve il consolidamento della sua struttura sia ad uno statuto di essenziale emigrazione, sia a caratteri di identità instabili, secondari, migranti.Venendo subito a render ragione di simili affermazioni conviene passare a un breve ripasso delle condizioni di nascita ed esistenza e sviluppo del melodramma, melodramma prima e dopo le origini quale genere di arte provvisoria, mutante nel correre dei cicli delle sue offerte di prestazione, frutto di creatività sospese fra servile decoratività applicata a situazioni sociali o politiche o ambientali e limitate autonomie di gestione di generici artefatti per l'intrattenimento.Posta un griglia concettuale come quella qui sotto proposta per avviare una definizione sufficientemente utile di un genere che è nato vantando la sua indefinibilità come quello dell'Opera, un genere che è indiscutibilmente moderno (data la innegabilità della sua nascita ed apparizione nel dopo Colombo), ma anche un genere che si compiace comunque del luogo comune che vuole attribuire all'Opera il carattere-base di una trasformazione culturale di qualcos'altro, qualcosa d'altro da lei, contemporaneo o antiquario-rinato-resuscitato, posta, dunque una griglia definitoria per esclusione del tipo:A. [l'Opera è] la tramutazione di una vetustà nota in una modernità ignota;B. è la tramutazione di una vetustà nota in una modernità nota;C. è la tramutazione di una vetustà ignota in una modernità ignota;D. è la tramutazione di una vetustà ignota in una modernità nota,è anche possibile disattivare molto presto la pretestuosa geometria del quadro rispondendo positivamente, e lo si può fare, a tutte e quattro le soluzioni interrogativamente definitorie.La proposizione A è infatti vera laddove si ragiona interpretando la ragion d'essere dell'affermarsi dell'identità dell'opera in una sorta di miracolosa, o per lo meno poco concepita, poco mediata, rinascita della tragedia classica (greca) nella prestigiosa consistenza umanistico-rinascimentale di una modernità indefinita su entrambi i versanti della destinazione e del contatto (comunicativo); (in massima parte la tanto affermata neo-classicità dell'opera, tanto affermata e non soltanto negli ambienti fiorentini o altrove accademici, è una petizione di principio critica e non precisamente poetica: la sua concezione non soltanto non è condivisa dagli autori, che sanno molto bene di non operare affatto con propositi o materiali archeologici o filologici, ancor meno è condivisa dal pubblico, che ben poco è tenuto ad aver cognizione della notorietà del vetusto modello; la neoclassicità del genere opera, è aperta a realizzazioni solo significativamente possibili, più possibili che reali –da cui: la cifra ignota della sua ineludibile ma anche enigmatica modernità).Così anche la proposizione B è vera laddove si interpreta la natura del neo-genere (letterario-drammatico-musicale ma nel contempo né letterario, né drammatico, né musicale), il genere (in identificabile, certamente, ma altresì noto e presente) dell'Opera come una tramutazione del noto genere favolistico allegorico, divenuto notoriamente ineluttabilmente vetusto e sepolto, della figurazione-rappresentazione festiva propria della feudalità signorile, in un genere favolistico-allegorico spento, notificato e diffuso secondo logiche mercenarie di offerta di occupazione del tempo libero di classi sociali contigue ma immature a farsi classe-stato (una occupazione del tempo libero, dunque, standardizzata nella simulazione –alla fin fine narrativa– di feste senza festa, una occupazione del tempo libero liberalmente protetta da un governo compromissorio e moderno, come nel caso veneziano, sovrano e popolare, né feudale né borghese, democratico ma anche oligarchico ma anche monarchico, una occupazione del tempo libero adibita all'esercizio o alla simulazione di comunanze: comunanza di sentire, di divertirsi, di festeggiare la fine di una giornata, possibilmente in tempo di carnevale, in forme controllate e in luoghi deputati).La proposizione C appare ancor più vera se si interpreta la nascita del genere Opera come una tramutazione della vetustà sufficientemente ignota, qual è l'antichità corta della Commedia dell'arte e della sua tradizione testuale labile (coabitazione del genere comico con caratteri fissi del teatro di maschera con il genere romanzesco a caratteri mobili della opera regia), in una modernità relativamente ignota qual è un genere caratterizzato dall'insediamento forte (seppur su fondato su basi organizzative e d'allestimento abbastanza precarie… boiseries, affittanze ecc.) in istituzioni teatrali molto marcate dalla etichettatura locale (vedi dalla prima etichetta delle origini, Veneziana, alle susseguenti, alla matura Napoletana, e consimili…). Una etichettatura che via via muta la dominanza di connotazioni sempre più incatenate alla idea e alla sensibilità della contabilità o della messa di voce (virtuosismo asessuato dei musici, castrati; poi belcanto sessuato nel romanticismo; poi urlo ed iper-espressività brutalmente umane, né sessuate né asessuate, nel cosiddetto verismo…).La proposizione D si invera ove ci si dispone a interpretare l'Opera come il genere poetico-artistico-musicale che più di qualsiasi altro genere notifica la sua modernità per la modernità (sia pur modernità relativa che non desidera altro che fermarsi allo stato presente in cui si trova, a suo credere, ad un top). Notifica, dicevo, la modernità per la modernità, in appariscenti forme, configurazioni, ecc. della moda, per l'appunto, dell'up to date, dell'aggiornamento à la page, ovvero di una delle piattaforme più garantite per le performances del nazionalismo (quando ci sarà, rivoluzionante, un universo nazionalizzato che chiude ogni vetusta partita aperta con Impero, Papato, Classicità, Grecia ecc. [ecc. sta qui per dire altri universalismi, e d'essi disconoscendone la notorietà]).Questi quattro successivi e tutti plausibili inveramenti tabellari possono generare un semplice giudizio di complessiva e ufficiale condizione di instabilità degli statuti del genere-Opera, così come, rivolti in positivo gli stessi giudizi di instabilità possono enucleare una definizione, tutt'altro che sfumata, centrata sul carattere primario della mobilità: una mobilità diversamente connotata che produce stili, processi, progressi, sufficientemente sensibili alla qualificazione sia nella lunga che nella breve durata, insistendo sulla dimensione dell'interesse per quel paradosso essenziale alla definizione della fenomenologia della moda che è l'originalità che punta a performances di diffusibilità, la tipicità che aspira a farsi generalizzare, l'unicità che aspira a farsi seriare e riprodurre.Accennerò brevemente ad alcuni eventi cardinali che rappresentano altrettanti capitoli, sfumanti, della storia e della storicità dell'Opera, ponendoli in una successione grossomodo casuale, fuori di ogni ragionevole diacronia apparente, al fine di sottolinearne l'essenziale indipendenza ed, eludendola, la modestia delle chances di una lettura eziologica dei fatti, e di proporre per contro l'evidenza del peso della caratterizzazione mobile e migrante dei fattori identificativi del genere artistico, delle sue poetiche e dei suoi successi.Nel quadro in cui l'Opera migrante si dà lo statuto connotativo che corrisponde alla aggettivazione che le ho inflitto giocano attivamente una quantità di eventi apparentemente paradossali o contradditori che a dispetto di tale apparenza sono per quel che sono, così, fondatamente caratterizzati sino incassare non di raro valore categoriale.Vediamo di mettere a fuoco alcune circostanze, ripeto, senza badar troppo al valore diacronico della loro fenomenologia.1. L'Opera-regina del tempo delle origini, la Veneziana, proprio quando la vediamo esprimere il suo prototipo più rodato nel 1641 con la Finta pazza di Strozzi Sacrati e altri, e anche agire convincentemente in un campo di offerta mercenaria d'opera pubblica, con tanto di sbigliettamento, è difatto significativamente, tramutata subito subito, in una prima Opera di Stato, non veneziana, non italiana: francese (questo accade quando essa è subito subito adottata dal cardinal Mazarino, con tanto di prelievo e asporto fisico di uno dei massimi rappresentanti della sua fabbricazione collettiva, nel caso: l'ingegnere macchinista Torelli, al fine di imporre politicamente, a suo pro, a pro del cardinale, un tono culturale italiano al dispiegamento di nuove fastosità festive cortigiane e parigine, che vanno a irrobustire l'apparato denotativo dello Stato Assoluto, cristiano ma non sacro, regale ma non imperiale, in qualche modo resuscitando così, trapiantandone la materia della sua dissoluzione italiana, realizzata per l'appunto nell'opera di pubblico consumo alla veneziana, la decaduta struttura della festa allegorica signorile feudale o neo-feudale che aveva accompagnato lo spirare delle morenti signorie rinascimentali italiane).2. La più connotata, internazionalmente parlando, come veneziana, la più veneziana delle fasi evolutive, decisive dell'Opera, e della sua storia, intendo l'Opera dei cantori evirati, che s'attua, s'instaura e trionfa nei decenni secondo-terzo-e-quarto del diciottesimo secolo, in una sede canonica, qual è il Teatro Grimani di San Giovanni Crisostomo, ha luogo sì a Venezia, indiscutibilmente, ma solo e soltanto benedice in Venezia dei prodotti artistici migranti (compositori e cantanti napoletani) che a Venezia, quasi si potrebbe dire, timbrano, brevettano un prodotto, che immediatamente emigra, viene battuto all'incanto in tutti i mercati europei dell'arte musicale, e torna a Venezia, solo e soltanto per essere restaurato, quando viene ad essere logorato dall'uso o dall'abuso passivo.3. Una figura decisamente fondamentale della storia dell'Opera, Pietro Metastasio, sviluppa una carriera artistica molto sofisticata, improntata decisamente alla categoria concettuale e pratica della migrazione e del flusso di idee, impianti espressivi e derive del pensiero e della psicologia fra vorticosi scambi di gusti impercettibilmente mutanti. Romano, educatosi al magistero partenopeo ma romanizzato del Gravina, accademico Arcade, ossia uomo di fede cristiniana, sensibilmente coatto alla passione per la musicalità napoletana che intende promulgare, attraverso i divi rosignoli evirati e le virtuose al servizio di questa o quella altezza, come incarnazione dominante etica nel secolo del secolo, cooptato al servizio imperiale austriaco e relative propagande diplomatiche e belliche, impegnato a sostenere il lancio esclusivamente veneziano del genere operistico da lui perfezionato (che è una sempre tragedia mancata, inesorabilmente salvata da un lieto-fine ritualmente inscenato come in un sacrificio ai principi della Ragione, per non dire dei Lumi, che azzera ogni progetto catartico aristotelico), impegnato del pari a trasfondere, per grazia di oculati innesti, le poetiche del giansenistico esercizio ed esempio raciniano nel tessuto del dramma barocco depurato d'ogni residuo delle sacche di comicità guittesca (comico-artistica), promuove dalla postazione di difensore allegorico delle virtù della moderata illuminazione dei despoti assurgici, la più insistita possibile affabulazione dei valori di una riforma antropologica della cultura europea guidata da principi e dinamiche etico-politico-sentimentali essenzialmente preborghesi, attenuatamene ma irrimediabilmente irreligiose, i cui messaggi non scorrono nei tempi e nei luoghi deputati della devozione, della fede o del rispetto politico dell'autorità, per disperdersi in mille rivoli narrativi e cantabili, semplici, di culto della libera soggettività (culti cotti e cucinati in salse decorative bucolico-principesche, storicamente estraniate, e in brodi di classicità de-connotate da affioramenti impalpabili del sentire moderno).4. La dirompente fenomenologia della nascita della critica filosofica, del pensiero critico filosofico, passante per la critica musicale spianando strade alla sperimentazione di applicazioni ideologiche che porteranno al tracollo dell'Ancien Régime, è accentrata, storicamente, tutta, su di un piccolo episodio di migrazione di commedianti-cantanti italiani, esportato di intermezzi, i Bouffons della compagnia girovaga Bambini, e sulla recezione, per l'appunto critica, di un manipolo di querelleurs, creatori della dinamica della ideologia partitica, la ispiratrice della geografia delle assemblee e dei parlamenti borghesi.5. Collegato con il punto 4 è un carattere infettivo, una potenzialità di contagio, che si inseriscono fra le proprietà veicolative, puramente strumentali, che l'Opera viene a manifestare sempre più nei suoi futuri sviluppi e che la rende, proprio in virtù delle sue risorse migratorie, il miglior mezzo di trasmissione mediatica, ingenua e persuasiva, commisuratamente rafforzata dalla sua apparenza di disinteresse, di informazioni, idee, ethos e pathos di più esplicitazioni delle mitopoiesi moderne (si pensi solo al wagnerismo ed al cangiare del suo potere induttivo di migranti identificazioni culturali, migranti incantesimi ideologici, accaloramenti migranti di sentimenti di gruppo, fra élites e masse).6. È difficile mettere in discussione la realtà della funzione assunta dal teatro d'opera all'italiana (secondo la formula definitoria architettonica di teatro palchettato), in termini di simbolismo facile ovvero di facile presa, come altro tempio (altro dalla chiesa), negli insediamenti dei centri di governo degli imperi coloniali. Il secondo tempio, operistico, adottato come struttura equilibratrice e disponibile ai più diversi usi della autorappresentazione pubblica dei governi, è risultata di fatto, forse a causa della modestia dei contenuti espressivi del colonialismo stesso, riempita di contenuti effettivamente operistici, in un protempore o proforma di lunga durata, operistici e italiani, che hanno istituito una vera e propria industria dell'export dell'opera italiana, globalmente diffusa nel mondo coloniale globale. Può servire da indice della importanza del fenomeno il fatto che fra tutte quelle del mondo la editoria musicale italiana (coinvolta fino ai capelli nella industria musicale dei noleggi di spettacoli e delle agenzie d'impresa lirica) è forse quella che può vantare il maggior numero di indirizzi mondiali, indirizzi di stra-dislocatissime sedi di produzione e distribuzione, in calce alla propria insegna sui portoni delle sue case madri o al piede dei frontespizi dei sui spartiti).7. Rilevantissima, nel quadro della caratterizzazione migrante/emigrante del genere opera italiana è la appariscenza dei suoi viaggi di andata e ritorno sull'asse ovvero sulla linea Milano-Parigi, quale si lascia osservare nei fenomeni del radicamento massimo del romanticismo lirico italiano (belliniano-donizettiano) nella impresa napoleonica del Théâtre Italien, nel vai e vieni della struttura-gusto del grand-opéra dai suoi anticipi italici rossiniani, alla sua fioritura meyerbeeriana a Parigi, alle sue reimportazioni d'ossequio alla moda del Verdi dei Vespri e dell'Aida (Otello) e dei postverdiani capitanati da Ponchielli. Per altra via fenomeni oltremontani come quasi tutte le cosiddette Opere nazionali, la tedesca, la russa, l'opéra comique, ecc. devono la loro affermazione a suggestivi modelli drammaturgici italiani migranti (in gran parte il genere del dramma giocoso riformato goldoniano e il suo sviluppo nel repertorio tardosettecentesco delle cosiddette Farse) o a personalità di artisti emigranti, fondatori di scuole nazionali estere, come Cherubini a Parigi, o Cattarino Cavos a Pietroburgo)…8. Altra sofisticata modalità di migrazione immanente al processo di evoluzione, italiana, dell'opera italiana potrebbe essere individuata e commentata nel sensibile migrare degli elementi di caratterizzazione della poesia dell'Opera in direzione mid-culturale, nella metamorfosi della sensibilità comunicativa da relativamente pedantemente eroica o mistica a forme di presa di contatto l'orecchio e il cuore medio-piccolo borghese allorquando divenendo di colpo Nazione, impreparatamente, sull'onda di una rivoluzione ignara di istanze effettivamente popolari, la cultura neo-nazionale migra, vestendo pepli e coturni ammodernati, servendosi delle occasioni dell'Opera, nelle regioni centrali del suo stato sociale, a sedurre soggetti, popolo, donne, operai, mai cooptati alla autocoscienza patria (e correranno alla chiamata anche stuoli di personalità attive, cantanti meravigliosamente orecchianti, ignari di poesia e musica, ma invasati da una intonatissima Musa tenorile o sopranile, provenienti dagli angoli contadini più remoti della penisola, emigranti nei templi dell'Opera Italiana edificati in tutte le metropoli e le piazze del Mondo…).[…]Intervengo sulla sospensione dei referti di migrazionismo aprendo su una scena vecchia e un po' strana tirando in ballo un personaggio indiscutibilmente rappresentativo.Siamo a Napoli nell'aprile del 1858, il Maestro Giuseppe Verdi, che sta per ritornare al suo Nord con la fedele Giuseppina, riceve in dono dal poeta Nicola Sole [Nota 1], un lucano residente fisso a Napoli, grande estemporaneista, iperbolico, che da anni sotto il Vesuvio verseggia innumerevoli odi dedicate un po' a tutto e a tutti [Nota 2], riceve, dicevo dal Sole, la prova, anzi le prove [Nota 3] di uno schietto riconoscimento quasi popolare, comunque basso-poetico, basso-mimetico della sua missione di vate nazional-padano. Una missione che nell'esercizio di Napoli, sul lato del consolidamento del registro delle opere complete del Maestro Verdi ha reso a dire il vero abbastanza poco. Egli vi ha messo in scena, infatti, in quel 1858, soltanto una ripresa tradotta e maltagliata dalla censura dei Vêpres orrendamente re-intitolati a scanso d'equivoci Batilde di Turenna, e quindi ha visto afflosciarsi malamente il sospirato soufflé dell'ipotesi di finire e di portare sul palco partenopeo il Ballo in maschera.Insomma la patria sud-italiana lo vede andarsene, nello scorcio napoletano, andarsene via un po' imbronciato e infastidito; ma di ciò Niccola Sole poco si accorge, e, a perdifiato augura al Maestro un buon viaggio di ritorno. [Viaggio] Di ritorno ai suoi “campi” ove “solingo a l'arte vive ed a l'amor” [Nota 4]; augura il buon cammino a Colui che tutti i cuori d'Italia, col “tocco della man che scrisse di Manrico il lamento” ha fatto palpitare, da Trapani a Bressanone. Lo restituisce “d'Agata a le tranquille ombre giocose” e gli consegna una decorata patente di onorevole creatore di una tradizione che rispecchia la patria Italia unita in sempre più ricorrenti anteprime. (I teatri d'Italia, palestre di storia, profetizzano e riprofetizzano sulle ali del canto dei carmi sonori verdiani un'unione storica che prima o poi diventerà geografica ovvero politica).¡Addio! La mente con più forte amore / guarda le cose sparir. Siccome / più bello appar quanto men presso il miri / pennel fiammingo, le rimote gioie / le ricordi, le speri, assai più vaghe, / ridono all'alma. Un crepuscol rosato / una nebula d'or confonde e vela / quanto v'ha di caduco e a la speranza / la memoria somiglia…Il poeta di Senise lancia quindi in un gran vai e vieni di parole encomiastiche, che vanno da lui stesso, il Sole, al Verdi, da Napoli a Busseto, con vari ritorni, come in un verde biliardo, un'idea-icona plebiscitaria degli Italian tuttii che balzano su tutti assieme alla prima nota di ogni melodia, o di ogni coro, impennandosi tutti d'ali di fuoco sulle ali del caloroso canto delle arie,o, soprattutto, delle cabalette del Lombardo.Il poeta Sole, con ingente umiltà, si identifica nel puro, a dire il vero forse puro e un po' depresso, destinatario-medio, italiano, dell'arte di Verdi:… ad una meta / moviamo insieme, e per diverse vie, / tu glorioso e grande, io di sì breve / luce precinto, tu felice e lieto / de l'assolte promesse, io d'impotente / speme agitato…Ed insiste, il Sole, proponendo una strana soluzione dell'encomio che a noi, oggi, qui impegnanti a ragionare su fenomeni migratoria dell'Opera, potrebbe irritare suggestivamente il nostro orecchio smaliziato di storici della cultura. Si tratta di un espediente retorico decisamente geniale, che fa pensare.È tale, dice il Sole, è tale e tanto il potere che “all'armonia concede l'età che volge” che la lingua italiana, anche quando troppo pedantemente bella, arzigogolatamente polita o stilizzata [Nota 5], se e quando è musicata dal Verdi scatena, ossia libera tutti gli italiani e a tutti insegna quale sia in sé e per sé emblematica la soavità dell'espressione patria.Ed ecco il paragone cruciale: dice il Sole che la lingua italiana, inesistente per sé, è paragonabile, infatti, e vien scoperto ciò con l'andare dell'elogio, è paragonabile, la percezione della lingua lirica di Verdi, nell'atto ricettivo lirico, appropriato e neo-italiano, a quell'impressione sublime che l'ascolto della lingua materna, l'eloquio natio, sia pur sfumato negli accenti dialettali, anche i più crudi, suscita e soprattutto ha susicitato negli Esuli e negli Emigranti (privilegiatamene in loro, o in quelli come loro, in quelli che si sentono esuli in patria, nella cattività imposta dagli stranieri governanti sul patrio suolo).L'effetto-affetto dell'“ascoltare con le orecchie dell'Esule” è geograficamente garantito, attraverso la struttura ubiqua del canto verdiano, per quanta è lunga l'Italia, dalle vette alpine ai mari o viceversa: “una nota per diverse prode tutte genti commuove”. La lingua italiana cantata nell'opera, più emblematicamente che mai in Verdi che ne inventa, surriscaldandola là dove nasce al canto litico, la tipicità. La lingua italiana propria dell'Opera, si fa avvertire quindi come una traduzione sublime della lingua attuale, ritrovata miracolosamente intatta, vergine, nello charivari del presente storico come incarnazione sorprendente del desiderio, inattinto, di una lingua collettiva, sognata da un eroe espropriato: per l'appunto l'esule o l'emigrante che si gode l'attesa, la prefigurazione, o il sogno di un pateticissimo e sempre rimandato momento del ritorno. (Ritorno cantato en travesti: a far la parte dell'Italiano, sembra starci, sempre, in figura, qualcun altro esule o altro ramingo emblematico: ebreo, gitano, bandito spagnolo, eremita, gigolò parigino, ecc.).Ed ecco il miracolo: il secolo, non più sozzo e non più vile, come era stato disedegnato dai risorgimentali, ma sapïente e civil, batte all'unisono le palme: batte le palme e plaude; plaude e piange. Ecco allora la di già disgregata umanità italica trovare nella musica lirica il “Chi[?]” che presiederà ai suoi nuovi amplessi; la musica lirica di Verdi è fatta per rimuovere nel profondo i sentimenti nazionali (accendendo, con le sua faville, una popolarità buona, relativamente inoffensiva, nella misura che tanto è più forte quanto più è contigua o circoscritta ai testi e alle parole operistiche [Nota 6], e quindi pertanto limitata alle situazioni dilette deputate al canto ed alla scena e in esse ripetibile come le prescrizioni delle ricette).Si chiude infine la celebrazione partenopea con una Preghiera significativamente inventata, salmeggiante, che Verdi musicherà [Nota 7] all'improvviso (ed è strano questa prestazione cordiale, già che il Maestro è, di suo, personaggio scorbuticissimo, con tutti, spesso oltremodo irritato nel suo di dentro dai reumatismi o dalla gastrite, ma in specie, ancor più irritato se mal sollecitato da fuori, sgarbato coi petulanti seccatori, massimamente quanto versati nei versi). In effetti la pompa napoletana prende piede e fa un gran baccano per la città (quel gran baccano di cui canteranno a coretto, presto, ma non a Napoli, come il giovane vegliardo artista sperava, i buffi congiurati del Ballo in maschera): tutti gli artisti napoletani convergono infatti all'Hotel Roma, dove Verdi è stato pedinato; lo spiano per imparare ben bene la sua fisionomia; sostano sotto il balcone per ascoltarlo lavorare, inutilmente [Nota 8],al piano. E poi alla partenza è tutto un cantare e un grande levar di calici.Ancora nel 1896, quasi quarant'anni dopo, il pittore Morelli, Domenico Morelli, ricorderà a Verdi, per lettera, le passeggiate e i quattropassi notturni con gli amici e con il prete Sole che verseggia brindando e con Verdi che passa in musica le parole appena sfornate. E fra queste anche una sedicente preghiera-cantico mattutino del poeta che il compositore dedica alla memoria della sua propria capacità di costringere a risonanti amplessi d'eco le gravi ansie del secolo, sparse ovunque sui liti italiani sino fondare una comune meta identificata nel plauso dell'autocoscienza nazionale e popolare per il vate musico unificatore (peraltro immaginato nella chiusa morto: morto cantando, “la man sull'arpa e la pupilla al cielo”). [Nota 9]Una immagine, un santino, buono per ogni uso dello spirito romantico migrante, fra partenze e ritorni, in un rituale rispettato della in indefinizione e della lontananza.Note1 Nicola Sole, nato a Senise il 31 marzo 1821, morì a Senise poco dopo l'incontro con Verdi, nella prima settimana di dicembre del 1859. Sin da ragazzo nel Seminario di Tursi, dove studiò da prete, scriveva versi che, con una facilità impressionante e impareggiabile, gli erano sempre e solo ispirati da pertinenze occasionali.2 A prova della essenziale natura estemporaneista della musa del Sole si può citare come caso esemplare la dedica di un poemetto al più estemporaneo e imprevisto e culturalmente impreparato degli eventi possibili in un riquadro di Storia, il terremoto. Così recita il canto improvvisato quasi in tempo reale dell'ode al terremoto che distrusse la regione del Vulture3 Dico le prove perché all'addio al Maestro il Sole fa seguire un'ode a Giuseppina Verdi Strepponi, un'ode per così dire di diritto per tanta “avventurata educatrice di rosignoli”, nel cui tempo lirico prende posto, invasivamente, una simpatica coppietta di uccellini orfani, colti ad amoreggiare in un cespo di rose camaldolesi.. Sole si serve di loro per salutare in Giuseppina la prima destinataria domestica dell'opera nazionale italiana che “sedente all'ara del Genio i suoi divini estri alimenta e invidiata e cara sacerdotessa di sue note ardenti primiera accoglie i numeri sovrani onde i teatri fremeran domani” ecc.4 L'unica edizione, ottima, dei Canti del Sole è ancora quella di Bonaventura Zumbini, uscita a Firenze, per Le Monnier nel 1896 (tardi ma a Verdi ancor vivo), gli inni a Giuseppe e Giuseppina, con la preghiera di cui dirò tra poco, si trovano alle pp.90-98 e 238 di detta stampa.5 Per dire con qualche frammento di paradigma: le egre soglie, in upupa o strige talora si muta, le fosche notturne spoglie de' cieli sveste l'immensa volta, è denno a te della clemenza il dono, dinne, perché in quest'eremo tanta beltà chiudesti? … ecc ecc. La bella lingua è un riferimento ineludibile della produzione di contrasti (con la lingua comune, quotidiana) di cui ribolle l'enunciazione lirica di Verdi.6 Momenti isolati che si fan cogliere, negli infiniti cavi del popolo, fanciullo e indomito, che li trattiene come gocce d'acqua piovana o rondinelle caduta dalla augusta gronda del poeta.7 Se ne veda la partiturina nella tavola I, già poco sopra richiamata.8 L'opera non si farà.9 A dire il vero un'idea poco peregrina ma comunque centrale poi nella lauda dannunziana.
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