European Musical Heritage and Migration

L’estro e l’azzardo: italiani del primo cinema in Argentina

Roberto Ellero
lunes, 7 de julio de 2003
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0,0020942 Buenos Aires, che ancora nel 1854, subito dopo la sconfitta politica dell'autoritario Juan Manuel de Rosas, conta appena 90.000 abitanti, ne vanta già 670.000 nel 1895, superando abbondantemente il milione col secolo nuovo (saranno già due sul finire degli anni Venti). Negli anni della grande ondata migratoria vede così sancito il suo ruolo guida, che è quello di capitale federale della nazione argentina e di prima autentica metropoli dell'intero subcontinente latinoamericano. Il clima di frenetico sviluppo e di incessante novità è talmente propizio da determinare l'arrivo pressoché subitaneo anche del cinema, che nella versione Lumière fa ufficialmente la sua comparsa al Teatro Odeón di Buenos Aires il 18 luglio 1896, pochi mesi dopo la celebre serata del 18 dicembre 1895 al Salon Indien del parigino Boulevard des Capucines. Da notare, oltretutto, che in un'altra versione, quella del kinetoscopio dello statunitense T.A. Edison, il nuovo portento delle immagini in movimento era già passato per Buenos Aires un paio d'anni prima, sia pure senza impressionare troppo [Nota 1]. Curioso destino, comunque, quello del cinema argentino, sicuramente di punta e produttivamente continuativo nel contesto dell'America Latina, sino ai giorni nostri, ma eternamente secondo nella gerarchia continentale, sovrastato per importanza e capacità di penetrazione dalla produzione messicana nella prima metà del Novecento, da quella brasiliana nella seconda. Come osserva lo storico Paulo Antonio Paranaguá,“(…) ogni gerarchia e classificazione comporta inconvenienti, soprattutto se si tratta di ridurre la classifica al solo primo posto. In entrambi i casi, l'ingiustizia maggiore risiede nella non considerazione dell'Argentina, sia nella fase di industrializzazione sia nella tappa di rinnovamento.” [Nota 2]Così come in molte parti del mondo, i primi passi del cinema in Argentina sono in buona misura a senso unico, caratterizzati dall'importazione. Ed è esattamente in virtù dei tanti legami che ancora uniscono molti dei nuovi arrivati (un terzo, si calcola, della popolazione porteña) ai Paesi europei d'origine che tali importazioni procedono spedite. A rifornire di cineprese e proiettori rudimentali sempre nuovi il suo negozio fotografico, sito in Bolivar 375, è ad esempio il belga Enrique Lepage, mentre un altro pioniere, l'italiano benestante Eugenio A. Cardini, approfitta di un viaggio in Europa per procurarsi una cinepresa Lumière con cui girare nel 1901 le prime “scene di strada”. Due impiegati alle dipendenze di Lepage, il francese Eugenio Py e l'austriaco Max Glücksmann, provvedono a compulsare i listini delle prime distribuzioni cinematografiche europee, ordinando le pellicole da avviare alla programmazione. Con una cinepresa Elgé è lo stesso Py a girare in Plaza de Mayo, nel 1897, il primo cortometraggio autoctono, La bandera argentina (La bandiera argentina), seguitando poi con assiduità nel campo del documentario, sorta di Comerio argentino, mentre dell'ebreo viennese Glücksmann sarà ben presto l'intuizione di dare un mercato – se possibile, persino transnazionale – alla nuova invenzione, distinguendo ruoli e funzioni nei segmenti della produzione, della distribuzione e dell'esercizio. Non bastasse, siccome la musica gioca un ruolo di primissimo piano nella vita quotidiana della nuova composita comunità (da un lato il melodramma e la tradizione melodica italiana quando non il sainete, la zarzuela, il chico criollo, dall'altro il nascente repertorio autoctono di tanghi e milonghe, esso stesso impasto di varie ascendenze e lingua franca degli emigrantes), è certo significativo che già nei primi anni del nuovo secolo prendano avvio forme sperimentali di sonorizzazione fonografica o cronofotografica, mediante l'abbinamento sincronizzato di dischi e pellicole. Mai davvero soltanto in bianco e nero, perché in realtà spesso policromo grazie ai vari procedimenti di viraggio, imbibizione o di colorazione a mano delle pellicole, il cinema dei primordi neppure poté mai dirsi completamente muto, meno che meno in Argentina, dove l'opportunità di sfruttare anche cinematograficamente la lucrosa popolarità di musicisti e cantanti (fra i quali, l'italiano Alfredo Gobbi) viene immediatamente colta e assecondata, ben oltre la tradizione assai diffusa dell'accompagnamento musicale dal vivo, che oltre a rimanere un importante fattore culturale “prefigura la rivalsa del periodo sonoro, che cercherà le proprie radici proprio nella musica” [Nota 3].Mario Gallo e il film storicoSin dai primi nomi compresi in questo rapido inventario dei primordi cinematografici argentini appare chiaro come la nuova invenzione sia un genere di spettacolo che molto deve alle ondate migratorie di fine Ottocento. A praticare la nuova arte, improvvisandosi produttori e registi, sono personaggi come il pugliese di Barletta Mario Gallo, italiano pintoresco - capita di leggere nelle biografie - che, giunto a Buenos Aires nel 1905, campa di lavoretti nel mondo dello spettacolo (direttore del coro in operette, pianista di caffè-concerto) prima di scoprirsi inaspettate doti cinematografiche, sia come produttore che come regista. Il novello cineasta, che a scanso di equivoci sceglierà proprio un gallo quale emblema del proprio marchio di produzione, scopre l'arte dei Lumière grazie ad un altro italiano, Atilio Lipizzi, ex elettricista e collaboratore del connazionale Leopoldo Fregoli per taluni suoi spettacoli di fregoligrafo, altra variante del cinema, firmando nel 1909 El fusilamiento de Dorrego (La fucilazione di Dorrego), ovvero – secondo le fonti storiche più accreditate – il primo film a soggetto argentino. Quanto alla natura dei soggetti (suo è anche, nell'anno del centenario, La revolución de Mayo, sulla sollevazione indipendentista di giusto un secolo prima, 1810), vale la curiosità di una costante – quella dell'ambientazione storica – che se da un lato richiama il genere maggiormente in voga presso il cosiddetto film d'art europeo, dall'altro segnala l'adesione del regista ad un'identità nazionale, l'argentina, avvertita in tutta la sua urgenza. Chi si attendesse dai pionieri del cinema argentino un insistente richiamo alle tradizioni culturali d'origine, e dunque alle vicende storiche dei paesi di provenienza, se non altro per nostalgia, resterebbe ampiamente deluso, trovando piuttosto nei loro film ampie tracce di una ricostruzione storica tutta locale. Così, in seguito, anche il primo lungometraggio a soggetto, Amalia (1914), dal romanzo omonimo dello scrittore romantico José Mármol, prodotto dal già citato Max Glücksmann, e poi ¡Federación o muerte! (Federazione o morte!, 1917), per la regia del citato Lipizzi. Né il fenomeno può dirsi solo argentino, investendo le altre principali produzioni coeve dell'area latinoamericana.“Una corrente patriottica anima le prime messe in scena più elaborate, spesso opera di immigranti desiderosi di integrarsi nella nuova società e disposti ad assimilare i valori della storia ufficiale: in Messico, il francese Carlos Mongrand; in Argentina gli italiani Mario Gallo e Atilio Lipizzi, oltre a Eugenio Py; in Brasile, l'italiano Vittorio Capellaro; in Bolivia, l'italiano Pedro Sambarino.” [Nota 4]Tornando al buon Mario Gallo, che per girare La batalla de Maipú (La battaglia di Maipú) può contare nel 1913 sulla collaborazione di un intero reggimento di granatieri argentini, giusto per sottolineare l'importanza riconosciuta all'epopea filmica dalle stesse autorità militari, va pur detto che messo in seguito da parte il genere storico sarà il primo a trattare in forma sistematica il film d'opera, licenziando nel 1919 il trittico costituito da Cavalleria rusticana, Tosca e I pagliacci, tutti opportunamente musicati dal vivo con i cantanti posti dietro lo schermo, in maniera tale da simulare ancor meglio il carattere wagnerianamente “invisibile” del suo teatro d'opera filmato. La sua buona stella non continuò a brillare per molto, consumandosi poi in produzioni sontuose ma di scarso successo. Oltre che fidelizzare alla nuova arte i soggetti più disparati (persino l'attore siciliano Giovanni Grasso, assai scettico nei confronti del cinema al suo arrivo a Buenos Aires; poi, dopo aver conosciuto Gallo e una volta di ritorno in Italia, valente neofita e interprete magistrale di Sperduti nel buio, 1914, sotto la direzione di Nino Martoglio), gli rimane il merito di aver svezzato il cinema argentino, insegnandogli a crescere nel campo della narrazione. Passione, la sua, nata forse casualmente ma tutt'altro che effimera se, come annota Couselo, “continuò ad essere fedele al cinema e morì povero” [Nota 5].Federico Valle: i notiziari e il primo film d'animazioneAltra figura chiave del primo cinema argentino è certamente Federico Valle, astigiano di nascita e inventore del notiziario che porta il suo nome, Film Revista Valle, settimanalmente sugli schermi argentini dal 1916 al 1931, vulcanico produttore sia di fiction che di documentari. Sua, oltretutto, è l'idea di mettere in movimento le vignette politiche di un quotidiano della capitale per le proprie actualidades, affidandone il lavoro di animazione allo stesso vignettista, il ventenne Quirino Cristiani, altro italiano, che traendo spunto dalle tecniche dedotte dalla visione di un lavoro di Emil Cohl, realizza La intervención a la provincia de Buenos Aires, appena un minuto di pellicola, ben sufficiente tuttavia a dimostrare la bontà del procedimento presso il grande pubblico. Di lì a poco, sempre in animazione, con cinquantottomila disegni impressi in un'ora abbondante di pellicola, nascerà El Apóstol (L'apostolo, 1917), oggi unanimemente ricordato come primo lungometraggio d'animazione al mondo, prodotto da Federico Valle e diretto dal citato Cristiani, con la collaborazione dello scenografo Andrés Ducaud e del disegnatore Diógenes “El Mono” Taborda. Confermandone la primogenitura assoluta, lo storico del cinema d'animazione Giannalberto Bendazzi ci dà ulteriori ragguagli:“Le prime immagini di El Apóstol cominciarono a scorrere sullo schermo del cinema Select-Suipacha il 9 novembre 1917. Il film durava poco più di un'ora, ed era il primo lungometraggio d'animazione mai realizzato. La trama era abbastanza lineare, anche se varie digressioni la complicavano. Il neoeletto presidente Hipólito Yrigoyen, arrovellato per la decadenza morale degli argentini, sognava di salire all'Olimpo abbigliato come un apostolo (l'apostolo della redenzione nazionale). Dopo vari dibattiti con i celesti sulla situazione politica, otteneva i fulmini di Giove, con i quali ardeva Buenos Aires in un fuoco purificatore. Yrigoyen costruiva così la città perfetta sulle ceneri di quella corrotta, salvo poi ridestarsi e tornare alla realtà. Il film, benchè mal distribuito, ebbe un franco successo di pubblico, e i giornali bonaerensi lo indicarono a esempio dei grandi progressi della cinematografia nazionale.” [Nota 6]Vulcanico ed inesauribile, Valle sembrava in quel periodo non volersi mai fermare: nello stesso anno de El Apóstol, il 1917, produce Flor de durazno, che segna l'esordio attoriale di un giovanissimo destinato alla massima celebrità mondiale, Carlos Gardel, finanzia altri lungometraggi (d'animazione e dal vivo), passa egli stesso alla regia, giungendo infine a lambire le nuove frontiere del cinema nel 1930 con il parzialmente sonoro La canción del gaucho, per la regia del negro (così chiamato perché mulatto) José Agustín Ferreyra, forse il massimo interprete dell'argentinità sugli schermi del muto.La nazionalizzazione del melodrammaDecade di imprese eccezionali, dovute alla fantasia ed anche al rischioso proporsi dei nuovi venuti, come appunto l'invenzione dal nulla (o quasi) del lungometraggio d'animazione, gli anni Dieci del cinema argentino – fortemente influenzati dalla coeva produzione italiana, di casa nelle sale che cominciano a popolare le vie della capitale fra Lavalle e Corrientes – segnalano continue evoluzioni, dietro alle quali non manca mai una qualche presenza italiana. Difficile, per non dire impossibile, non imbattersi in cognomi italiani nei titoli di testa o di coda dei film, anche se talvolta imbrogliati dalla moda di assumere nomi d'arte all'italiana per beneficiare della grande popolarità di cui godeva appunto il nostro cinema, prima che a conquistare le platee delle metropoli sudamericane arrivassero i nordamericani nei “ruggenti” anni Venti. L'entusiasmo per il trionfo anche commerciale di un film come Nobleza gaucha (Nobiltà gaucha, 1915), costato 20.000 pesos e capace di incassi milionari al botteghino, con una certificazione di qualità tanto sul versante tematico (in sostanza l'opposizione città-campagna, a tutto favore di quest'ultima) quanto su quello della costruzione linguistica (“…mostrava progressi nel linguaggio filmico, una lunga introduzione sulle fatiche contadine e, progredendo nella trama, la rappresentazione della vita di strada a Buenos Aires. La cura formale non imitava il cinema straniero”) [Nota 7], lascia intravedere prospettive di vera e propria industrializzazione per il settore, suggerendo interventi strutturali adeguati: ad esempio, la creazione di luoghi e spazi deputati per la lavorazione dei film. Ad avventurarsi per primi nell'allestimento di un teatro de pose per il cinema sono i coniugi Quiroga, che ne costruiscono uno nel quartiere residenziale di Belgrano (“… sul modello francese di Charles Pathé: un grande recinto di vetri che lasciava passare la luce naturale”) [Nota 8] per il film Hasta después de muerta (Fin dopo morta, 1916), gran numero dell'argumentista y intérprete protagónico Florencio Parravicini, anch'egli probabilmente di origine italiana, sia pure alla lontana, figlio di una già solida borghesia benché, personalmente, di temperamento vivace e di indole volentieri anticonformista. Un uomo e un ragazzo pregano sulla tomba di una giovane donna, tutta in flashback l'amara vicenda della defunta, sedotta e abbandonata (incinta) da uno spavaldo studente di medicina, che saprà trovare la forza per redimersi soltanto molto tempo dopo. Autore della sceneggiatura, Parravicini ritaglia per sé la figura del medico saggio che si prende cura dello huerfanito in attesa che il babbo maturi il senso di paternità, nell'epilogo che mette fine al racconto tornando circolarmente alle immagini di partenza. Con film come Hasta después de muerta comincia a prendere corpo già negli anni Dieci quell'opzione melodrammatica che così tanta importanza avrà all'avvento del sonoro, asse portante – assieme alla commedia – del cinema di genere argentino (e non solo di quello argentino) per più di un periodo e di una generazione.“Anche lo studio dei generi richiede un punto di vista comparativo. Il melodramma, per esempio, contiene varie fonti giunte dall'esterno: la letteratura e il teatro europei del XIX secolo, il cinema italiano dei primi del Novecento, il melodramma hollywoodiano. (…) Sul melodramma argentino gravitano inoltre altri influssi contemporanei: il teatro radiofonico, lo sceneggiato radiofonico, il romanzo popolare d'appendice, il fotoromanzo, il romanzo rosa, il tango e il bolero. (…) Prodotto di uno scambio triangolare, il melodramma latinoamericano mostra quanto intricata e complessa risulti la matassa del mimetismo e dell'originalità. Il Messico e l'Argentina non si limitano a copiare certi generi, ma li “nazionalizzano” per così dire, li adattano e li integrano ad altri ingredienti, rispettando i codici narrativi.” [Nota 9]Il tango dei quartieri altiRelativamente all'Argentina, nel processo di nazionalizzazione del melodramma, o se preferite di adattamento dei suoi stilemi agli umori nazionali, a giocare un ruolo determinante è il tango, che come vedremo monopolizzerà addirittura la scena dei primi due film sonorizzati con il sistema ottico. Ma prima di vedere in dettaglio i due film – che hanno anche il pregio di esemplificare in paradigma le principali anime della produzione media argentina (e sudamericana) di cui dicevamo: il melodramma e la commedia – occorre ricordare che esso accompagna in realtà tutta l'evoluzione del cinema argentino, non soltanto in sede di sonorizzazione musicale dal vivo ma anche come elemento della struttura diegetica e suo argomento cardine, ricorrente sin dalla titolazione di non pochi film. In finale di epoca muta conviene in particolare far tappa a La borrachera del tango (L'ubriacatura del tango) di Edmo Cominetti, che è del 1928. Buenos Aires è già da tempo la “città che non dorme mai” e i sogni dello scioperato Fernando, che fanno da incipit al film, sono un vortice sfrenato di ebbrezza metropolitana (l'ubriacatura del titolo) a fronte di una sveglia inutilmente puntata sull'ora in cui il nostro dovrebbe alzarsi, fare giudizio e andare a lavorare. Ma lui, Fernando, non ha di queste preoccupazioni, cruccio di una famiglia italo-argentina di non lontana immigrazione (ad un certo punto, in flashback, vediamo rievocata la scena dell'arrivo, carico di ogni possibile aspettativa) e in effetti già benestante, che ha cresciuto due figli: il perdigiorno Fernando, che passa le sue notti tra una festa e l'altra, play-boy impenitente, e il probo Luis, che ha studiato ingegneria, vanto del padre, ora impegnato nella costruzione di una diga idroelettrica nell'interno del Paese. Insieme a loro è cresciuta anche l'orfana Lucía, che ha la sciagurata idea di innamorarsi di Fernando piuttosto che di Luis, andando incontro alle inevitabili delusioni di un amore a senso unico. Il punto di vista dell'italo-argentino Cominetti, produttore e regista del film (tratto dalla pièce teatrale omonima in tre atti di Elías Alippi e Carlos Schaefer Gallo, andata in scena per la prima volta a Buenos Aires nel 1922), non dà adito a dubbi circa la descrizione di una Buenos Aires dove vizi e virtù si fronteggiano ormai persino all'interno di uno stesso nucleo familiare. E l'impressione è che sia proprio la città ad incentivare vizi e corruzioni. La salvezza non sta già più nell'utopia urbana, che pure aveva acceso di speranze coloro che erano giunti nei quartieri popolari di Buenos Aires (San Telmo, La Boca) venti o trenta anni prima; va piuttosto di nuovo ricercata nella semplicità e laboriosità della provincia, se ha un senso (e certamente ce l'ha) il finale agreste de La borrachera, fra gli scenari del paesaggio collinare dove viene finalmente inaugurata la diga di Luis (con tanto di fanfara strapaesana e di sventolanti tricolori con stemma sabaudo appaiati alla bandiera argentina). Sarà lì che anche Fernando darà finalmente segni di ravvedimento, impalmando la paziente Lucía. Quanto al tango, la lettura che Cominetti ne dà è quella volentieri moralistica del pregiudizio nutrito dalle classi agiate, musica del diavolo o del postribolo, comunque del malevo (malaffare) prima di assurgere a genere nazionale per eccellenza, buono persino per l'esportazione dell'immagine nazionale nel mondo. Ma è certo significativa, nel film, la sua collocazione non più popolare: il bordello che ospita una delle scene madri – quella in cui Luis irrompe in una festa cercando di far ragionare il fratello ubriaco – sta nei quartieri alti della capitale, non nei bassi o in periferia. E lì, il tango convive insieme al charleston e alle mode nordamericane, per la gioia di una gioventù palesemente dedita alla dissolutezza, almeno agli occhi del regista, che – aiutato in sede di inquadratura da un altro italiano, l'operatore Alberto Biasotti – scomoda persino l'espressionismo tedesco e il surrealismo francese per architettare lo scherzo dell'allegra combriccola ai danni del povero Luis. Da notare che nella medesima sequenza fa la sua comparsa una sorta di cine-box dal sapore avveniristico, parente domestico del futuro televisore. I convenuti ballano sulle note di un tango eseguito dal complesso – in primo piano il bandoneonista – le cui immagini appaiono in sincrono sul monitor, anche se il carattere oggi muto della pellicola ci consente la sola visione senza ascolto.Il tango in versione nazional-popolareI primi due film argentini a tutti gli effetti sonori (ovvero sonorizzati con il sistema ottico di lettura della banda sonora, collocata nella pellicola tra la perforazione e il fotogramma) hanno anch'essi entrambi a che fare con il genere musicale nazionale e risalgono ambedue al 1933, sugli schermi a poche settimane di distanza l'uno dall'altro: il più che esplicito ¡Tango! di Luis Moglia Barth (in prima assoluta il 27 aprile al Cine Real di Buenos Aires) e Los tres berretines dell'Equipo Lumiton (in prima assoluta al concorrente Cine Astor il 19 maggio). Sotto il profilo produttivo, segnano l'esordio di due importanti compagnie di produzione, rispettivamente l'Argentina Sono Film di Angel Mentasti, un italiano passato con successo dal commercio vinicolo alla produzione cinematografica, fondatore di un marchio che si protrarrà sino agli anni Settanta producendo oltre duecento film, e la Sociedad Anónima Radio Cinematográfica Lumiton, impresa creata da César José Guerrico, Luis J. Romero Carranza e dall'argentino di origine italiana Enrique Telémaco Susini, quest'ultimo anche regista de Los tres berretines benché non accreditato nei titoli di testa, dove la regia è attribuita collettivamente all'Equipo Lumiton, in sintonia con lo spirito di gruppo del terzetto, fattosi un nome in precedenza nel campo della radiodiffusione con le prime trasmissioni dell'emittente Via Radiar. E dalla radio, oltre che dal teatro leggero e dal cabaret, vengono gli interpreti, in buona parte già noti e familiari al grande pubblico nel momento in cui fanno il loro esordio sullo schermo, star del tango soprattutto, che perde in questi nuovi lavori dell'era sonora ogni possibile connotazione negativa. Rispetto a La borrachera, e a quel suo clima di perdizione borghese che avvolgeva anche il tango, il cambio di registro è notevole, operando nella direzione della piena valorizzazione del genere in una chiave che possiamo tranquillamente definire nazional-popolare, sia che si tratti di tornare alle origini (i continui ed espliciti richiami verbali, musicali e visivi ai barrios del Riachuelo nel film di Moglia Barth e Mentasti), sia che si tratti di farne risaltare la piena rappresentatività all'interno dei nuovi miti e riti del vivere quotidiano (significativamente, accanto al calcio e al cinema nel film della Lumiton, a comporre l'ideale triade dei “capricci” – berretines nel dialetto di Buenos Aires, il lunfardo – di moda nei coevi anni Trenta). Nell'uno come nell'altro caso, poi, è la vita urbana, nella dimensione metropolitana della capitale, che torna ad essere incontrastata protagonista, segnando l'ennesima vittoria di Buenos Aires nell'eterna disputa – universale ma certamente anche tutta argentina – fra città e campagna, metropoli e provincia, cosmopolitismo e nazionalismo.L'anima del barrioIncorniciato in apertura e chiusura da due strepitosi numeri musical-teatrali della cantante Azucena Maizani (in omaggio allo spirito porteño con l'iniziale Canción de Buenos Aires e all'autentica alma del barrio con la conclusiva Milonga del 900), ¡Tango! è una cavalcata musicale deliberatamente concepita in funzione dello spettacolo porteño e dei suoi protagonisti, estensione in campo cinematografico di un prodotto già ampiamente “manifatturato” dall'industria radiofonica e discografica, il tango appunto. Assai più della trama, riassumibile nel contrastato amore che unisce, divide ed infine torna ad unire per sempre i protagonisti (così familiari per il grande pubblico da mantenere nella finzione dello schermo persino i loro nomi di battesimo: Alberto, che infatti è Alberto Gómez, e Tita, che è Tita Merello, anche lei figlia di italiani, avviata a divenire gloria nazionale), valgono i topoi del genere, che mescolano volentieri le situazioni classiche del melodramma alle significazioni proprie del tango, qui calato nei luoghi originari dei quartieri intorno al Riachuelo. E' lì, in un locale del barrio, che Alberto, di ritorno in città, ritrova Tita, ormai legata ad un poco di buono, il Malandra, che sfidato a duello avrà la peggio. Costretto tuttavia a prendere il largo, Alberto diventa tempo dopo un apprezzato cantante di tango, di vaglia anche all'estero, per esempio a Parigi, dove si reca pensando di trovare Tita. Sulla nave, invece, fa la conoscenza e s'innamora di un'altra donna, anch'essa una cantante (Libertad Lamarque), che vorrebbe sposare una volta di ritorno a Buenos Aires. Ma quando tutto è pronto per la festa di fidanzamento, un amico del barrio (Luis Sandrini, altro figlio di italiani) gli rivela che Tita non s'è mai mossa dal quartiere e che ancora lo sta aspettando. Seguono l'abbandono della fidanzata (“perchè qualcuno sia felice, qualcun altro deve soffrire: per tutti non c'è salvezza nel mondo del tango” si premura di precisare un cartello) e, finalmente, il ricongiungimento con Tita, che è anche recupero delle radici, dopo tanto girovagare per il mondo, con la certezza – com'è detto nelle ultime battute del film – che “solamente nel suburbio de Buenos Aires los tangos tienen el alma”. Un film, questo primo sonoro argentino, non certo privo di enfasi, specie nella costruzione dialogica, ma ancora godibilissimo sotto altri profili, a cominciare da quello musicale (sono una ventina le canzoni del repertorio), e in fondo capace di ibridare con successo, attraverso il nuovo linguaggio del cinema sonoro e parlante, motivi diversi e di diversa provenienza, quali la rivista musicale, il sainete, il melodramma e persino la ripresa documentaria. Esplicito, inoltre, l'invito a diffidare del tango stereotipato di moda all'estero (la parigina boîte tango) per esaltarne la veracità porteña, quantunque in una versione essa stessa non priva di stererotipia.I capricci di Buenos AiresDi tutt'altra natura, certamente più leggero, ironico e propenso alla risata, l'altro esordio sonoro del 1933, Los tres berretines, che trae origine dall'omonimo lavoro teatrale di Arnaldo Malfatti e Nicolás de las Llanderas, già in scena con successo nei teatri di Buenos Aires. Tanto per cominciare, niente tango nei titoli di testa, dove le immagini urbane (Buenos Aires ma potremmo essere a New York o in qualsiasi altra grande città del Nord America) sono accompagnate piuttosto dal jazz di Duke Ellington, sottolineatura una volta di più del carattere volentieri cosmopolita della città. Il tango in compenso è la fissazione di Eusebio (il comico Luis Sandrini, presente anche nell'altro film sonoro, prime prove di popolarità per un attore destinato ai massimi successi), che pur non conoscendo la musica ritiene di avere un talento particolare per questo genere musicale. Figlio di italo-argentini anch'essi ormai perfettamente integrati a Buenos Aires, con le donne di casa tutte conquistate dai portenti del divismo cinematografico e un fratello centravanti nella squadra di calcio della città (gli esterni in uno stadio autentico sono un portento documentario per gli standard dell'epoca), Eusebio fa ricorso a Don Gaetano, titolare del Conservatorio Golfo di Salerno, per mettere sul pentagramma il motivo musicale che ha in testa. Ma costui – busto di Giuseppe Verdi in bella vista, una marina della costiera amalfitana alla parete, la parlata ancora napoletana (“un'altra volta…”, in italiano nel film) – anziché trascrivergli l'agognato tango gli compone una tarantella, destinando il povero Eusebio alla classica figuraccia una volta al cospetto dei maestri di tango. Altra sequenza chiave quando Eusebio, irresistibilmente clownesco (sarà la cifra attoriale tipica dell'interprete in prosieguo di carriera), si mette alla ricerca di un paroliere, trovandolo in uno squattrinato poeta che gli sciorinerà controvoglia le parole giuste per un “completo”, giusto un tozzo di pane e una brodaglia per campare. Se il film di Moglia Barth enfatizzava drammatizzando, questo di Susini e dell'Equipo Lumiton tende piuttosto ad ironizzare sdrammatizzando, non senza – tuttavia – offrire un significativo spaccato della vita bonaerense, colta nei riti e nei miti – berretines, locuras – di una quotidianità piccolo-borghese sino a quel momento ancora abbastanza inedita sugli schermi ma certo appetita proprio dal cinema per estendere e massificare il proprio pubblico. Se per accattivarsi le simpatie accademiche s'era fatto ricorso alla letteratura, così come alla storia patria per mettersi in luce presso i politici e le gerarchie militari, ora è grazie alla musica che il cinema può puntare le sue carte per entrare nelle abitudini quotidiane della gente.“L'avvento del sonoro coincise con la formazione di una nuova fisionomia argentina. Gli anni Trenta furono decisivi nell'integrazione dell'Argentina contemporanea, successiva alla forte immigrazione europea apertarsi alla fine del secolo precedente e più o meno stabilizzata nelle sue componenti tanto etniche quanto culturali e sociali.” [Nota 10]Cinema e musica: a schemi rovesciatiFra muto e sonoro, il cinema che prende corpo in Argentina, destinandosi ad una produzione anche quantitativamente rilevante (con quasi sessanta titoli all'anno nei primi anni Quaranta e poi nella seconda metà degli anni Cinquanta), fa dunque dipendere le sue sorti in maniera rilevante dalla musica, il cui ruolo è tutt'altro che quello generalmente ancillare altrove rivestito (sia pure con talune eccezioni di genere, com'è il caso del musical a Hollywood). Il tango, in particolare, evoca e descrive un mondo che è già di per sé un vero e proprio immaginario consolidato, parallelo alla realtà ma di essa rappresentativo, simbolico e volentieri polisemico con le sue storie, i suoi ambienti, le sue tematiche, i suoi personaggi e le sue “figurine” di contorno. Gli schemi sono insomma talmente rovesciati da far ritenere tutt'altro che infondata la teoria secondo la quale è il cinema in quegli anni ad apparire ed essere una sorta di sottoprodotto dell'industria musicale e discografica, piuttosto che un'arte a sé, sia pure riassuntiva di tutte le altre arti, alla maniera di quanto predicato sin dagli anni Dieci da Ricciotto Canudo a Parigi. Come collocare altrimenti la miriade di film per l'appunto di ispirazione musicale, tra cui Mosaico criollo dell'italiano Roberto Guidi, che monopolizzano la scena cinematografica argentina ben prima dell'avvento ufficiale del sonoro, datato 1933? Il fenomeno, frutto dei vari sistemi di sincronizzazione cui già si è accennato, è talmente esteso e risaputo da meritarsi persino una sua specifica denominazione (gli argentini parlano di cine tartamudo) e i dieci celebri corti con la voce e le immagini di Carlos Gardel dell'Asì cantaba Gardel in altrettante canzoni, giunti fortunatamente intatti sino ai giorni nostri e oggi disponibili in normale videocassetta (Canta “El Zorzal”), non fanno che confermare il primato dell'elemento musicale, con il cinema in posizione ampiamente sussidiaria. Assai più del cinema, è infatti proprio la musica a concorrere in maniera determinante alla definizione del tipo nazionale, alla connotazione dell'argentinità, perlomeno nella sua versione urbana incarnata dal mito di Buenos Aires.La continuità produttiva“Non siamo europei né nordamericani, ma sprovvisti di cultura originale, nulla ci è estraneo, perché tutto lo è. La penosa costruzione di noi stessi si sviluppa nella dialettica rarefatta tra il non essere e l'essere un altro.” [Nota 11]La riflessione è del brasiliano Paulo Emilio Salles Gomes e risale agli anni Settanta, buona tuttavia per fotografare e capire il dilemma dell'identità nazionale in ciascuno dei Paesi latinoamericani investiti dalla grandi migrazioni di fine Ottocento (e poi costretti a fare i conti con l'invadenza USA: l'invasività del suo immaginario e della sua economia, prima ancora che la filosofia del cosiddetto “cortile di casa”). Nel caso dell'Argentina e del primo cinema argentino abbiamo visto come il contributo degli italiani sia stato copioso e in molti casi decisivo, specie – a ben vedere – nel campo della produzione, considerata la linea di continuità che lega l'estro creativo e l'azzardo imprenditoriale dei vari Gallo, Valle, Mentasti e Susini, figure chiave per l'affermazione della dimensione artigianale in epoca pionieristica e di quella industriale poi. Italiani, certo, che si mescolano e integrano nel melting pot della nuova patria, aderendovi in maniera convinta, tanto convinta da tornare soltanto di rado ai temi della cultura d'origine, magari in chiave deliberatamente umoristica, come s'è visto in occasione del “tango, quasi tango, tarantella” de Los tres berretines. Di molti altri pionieri italiani del cinema in Argentina occorrerebbe naturalmente dire per rendere pienamente rappresentativo, se non esaustivo, il quadro delle referenze. Citando alla rinfusa: degli attori Lea Conti e Ignacio Corsini (presenti in ¡Federación o muerte!); del tragico Pablo Podestà e del versatile Luis Arata (che compare anche in Los tres berretines); dell'attore, regista e sceneggiatore Nelo Cosimi (propugnatore di un cinema popolare); di Florentino Delbene (“galán – seduttore, ndr – per eccellenza nella transizione dal muto al sonoro”) [Nota 12]; dell'autore di sainetes Carlos R. De Paoli (che passa dietro alla macchina da presa per Santos Vega, 1917); degli operatori di ripresa Emilio Peruzzi (poi anche regista), Enrique Lucchetti, Domingo Sorianello; dei valenti documentaristi fratelli Luis Angel e Vicente Scaglione; di produttori minori come Emilio Bertoni; e ancora di Alberto Traversa, Silvia Parodi, Pedro Gialdroni, Enzo Longhi, del modenese Carlo Campogalliani, marito dell'attrice Letizia Quaranta, che già prolifico cineasta del muto in Italia gira tre film di successo in Argentina dal 1923 al 1926 per poi proseguire la sua carriera in Italia. Italiani di passaggio, talvolta, ma più spesso stanziali e già figli o addirittura nipoti di connazionali giunti a Buenos Aires venti o trent'anni prima. Una storia, la loro, in gran parte ancora da scrivere. Possiamo dire che da quest'altra parte dell'Oceano il cinema italiano abbia prestato la dovuta attenzione a quella parte di italianità che andava faticosamente affermandosi in Argentina? Non proprio se persino episodi come Emigrantes – voluto e girato da Aldo Fabrizi in Argentina tanti anni dopo, nel 1948, sulla scia del successo (anche personale) ottenuto a Buenos Aires dal rosselliniano Roma città aperta (1945) – rimangono sepolti nelle pieghe delle filmografie minori. Un film, Emigrantes, oggi dimenticato, senza che di esso sia rimasta traccia nei repertori delle principali cineteche nazionali. Così come resta in buona parte da ricostruire, qui da noi, il mosaico dei contributi italiani allo sviluppo del cinema argentino, al di là di queste brevi e frammentarie note dal carattere inevitabilmente soltanto introduttivo.Note1 Cfr. Jorge Miguel Couselo, El periodo mudo, in AA.VV. Historia del cine argentino, Centro Editorial de América Latina, Buenos Aires 1984, p. 11.2 Paulo Antonio Paranaguá, America Latina: appunti su una storia frammentaria, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, volume quarto, Americhe, Africa, Asia, Oceania, Einaudi, Torino 2001, p. 156.3 Paulo Antonio Paranaguá, America Latina, op. cit., p. 179. Fra i musicisti impegnati ad accompagnare con apposite partiture il cinema muto l'autore cita Heitor Villa Lobos, Ernesto Lecouna, Bola de Nieve, Osvaldo Pugliese, Pixinguinha, Julio De Caro.4 Paranaguá, America Latina, op. cit., p. 1755 Couselo, El periodo mudo, op. cit., p. 186 Giannalberto Bendazzi, Cartoons. Il cinema d'animazione 1888-1988, Marsilio Editori, Venezia 1988, pp. 68-69.7 Couselo, El periodo mudo, op. cit. , p. 22.8 Couselo, El periodo mudo, op. cit., p. 269 Paranaguá, America Latina, op. cit. pp. 160-16110 Claudio España, El cine sonoro y su expansión, in Historia del cine argentino, op. cit., p. 57.11 Paranaguá, America Latina, op. cit. p. 175.12 Couselo, El periodo mudo, op. cit. p. 30.
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